Non sembrerebbe a guardare oggi i suoi video tutorial su Instagram in cui spiega le buone pratiche di uso dei social, ma in una vita precedente Federica Micoli, digital strategist, si stava ammalando, intossicata dalla dipendenza dai like e tallonata dalla paura di non essere abbastanza visibile. Dentro «quella discesa agli inferi», così la chiama, ha scoperto che non voleva scendere a ulteriori compromessi con gli algoritmi e da lì è ricominciata la sua risalita. Un’avventura che ha raccontato in Confessioni di una influencer pentita (Fabbri Editori, in libreria il 30 maggio). Di comportamenti “strani” pur di fare audience ne ha praticati e visti molti prima di passare dall’altra parte della barricata; ne cita uno, il più ricorrente, solo all’apparenza innocente e persino divertente: la pubblicazione degli screenshot delle proprie conversazioni sui social. «È un classico vederli nelle stories con tanto di nomi o foto dei profili di chi scrive, messe online per nutrire il proprio ego e alzare la partecipazione della propria community. Su TikTok c’è persino chi parla con la schermata degli screenshot come sfondo», dice.

Confessioni di un'influencer pentita

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Allora, fermiamoci un momento e proviamo a fare questo esercizio: alzi il cellulare chi non ha mai fatto screenshot delle proprie conversazioni online. Ok, ora alzi la mano chi le ha anche pubblicate… Ecco, se posso azzardare, direi siamo sempre gli stessi, e siamo in tanti. Così tanti che Elisabetta Zurovac, ricercatrice all’Università di Urbino presso il Dipartimento di Scienze della comunicazione, Studi umanistici e internazionali, ha appena pubblicato un saggio intitolandolo Screenshot society (Franco Angeli editore), un titolo emblematico. «Screenshottare è una pratica intergenerazionale diffusissima sui social, facile da fare e che diamo per scontata senza chiederci se sia legittima; nessuno l’aveva ancora esplorata e per questo l’ho fatto io.

Cosa mi ha colpito di più in questa ricerca? Direi due aspetti: il primo è l’intenzione che sta a monte, quella di strappare dal flusso continuo e velocissimo delle conversazioni un momento, un istante, per archiviarlo. In realtà è solo un desiderio destinato a fallire miseramente, perché l’archiviazione sistematica sui nostri cellulari non esiste. Il secondo è l’aspetto della veridicità: usare lo screenshot come se fosse una foto che ti mostra uno spaccato oggettivo della realtà. Ma questo potere documentale può essere modificato, proprio come avviene per le foto. Attraverso la mia ricerca ho capito che lo screenshot oltre a essere una pratica è anche la creazione di un nuovo oggetto digitale che assume una natura diversa da quella che aveva nel contesto della conversazione in cui il messaggio è stato prodotto. E produrre questo nuovo oggetto e renderlo pubblico, inserirlo in un’altra conversazione, è in un certo senso un esercizio di potere», conclude la ricercatrice.

ragazze con smartphonepinterest icon
Christian Vierig//Getty Images

Nella nostra società iper-informatizzata in connessione permanente, dentro un flusso di comunicazione continua, lo screeshot assume anche il compito di spettacolarizzare il proprio vissuto, diventa un modo di fare intrattenimento, utilizzando però il materiale e il consenso (non espresso) degli altri. Gli altri appunto… E se non fossero consenzienti?

«Come avvocata civilista, con gli screenshot delle conversazioni private ho la possibilità di avere una marea di prove scritte che prima non avevo e quindi si rivelano molto utili. Mi è capitato molte volte di portare in giudizio screenschot di conversazioni private così come messaggi vocali di WhatsApp in cui si smentivano tesi portate in tribunale», afferma Martina Lasagna, esperta di diritto del web, di privacy e contrattualistica. «Ma avere quelle tracce per il mio cliente che ha scattato lo screenshot vuol dire trattare dati personali, gestirli, e questo è una responsabilità: ci può essere un nome, una foto, un numero di telefono, informazioni che fanno riferimento alle condizioni di salute, all’orientamento religioso, e questi ultimi sono dati sensibili che, se si diffondono, possono dare adito a discriminazioni o pregiudizi. In altre parole possono ledere l’immagine della persona coinvolta a cui non si è chiesto il consenso, con il rischio di commettere un reato di illecito trattamento dei dati personali. Un reato minore, se non c’è la diffamazione. Consiglierei quindi di avere molto più consapevolezza di questa prassi, prestandoci la massima attenzione, a tutte le età».

Come possiamo tutelarci e proteggerci? «Dobbiamo darci dei confini rispetto a ciò che spesso si condivide con estrema facilità e senza pensarci troppo. Le conseguenze sul piano psicologico, in questi casi, possono essere estremamente gravi: proprio per questo, l’utilizzo consapevole delle nuove tecnologie rappresenta una tutela a cui nessuno dovrebbe mai rinunciare», spiega Valeria Fiorenza Perris, psicoterapeuta e Clinical director di Unobravo, piattaforma di psicologia online. «Senza però dimenticare», aggiunge, «che avere la possibilità di fermare attimi significativi, parole preziose lette o pronunciate da chi amiamo, poterle rileggere, rivivendo per un istante emozioni dense di significato, può rappresentare una carezza nei momenti difficili e un ricordo importante da riportare nella quotidianità». E quindi? «Coltivare l’empatia è un grande fattore protettivo della qualità delle relazioni vissute: guardare le cose dal punto di vista dell’altro, assumere la sua prospettiva, ci consente di decentrarci e compiere scelte rispettose e ponderate», conclude la psicoterapeuta.

Allora forse non è una brutta idea copiare la soluzione un po’ draconiana ma molto efficace dell’autrice di Screenshot society: «Mi sono imposta di inquinare il meno possibile il mio cellulare, evitando la pratica di fotografare le conversazioni. Mi limito a screenshottare le foto delle ricette che trovo online e condividerle, se capita, con le amiche».

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